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di Marzio Dall’Acqua

Presidente dell’Accademia Nazionale di Belle Arti di Parma

 

Forse resiste ancora il fascino della sala cinematografica, della proiezione alla quale si va, come su appuntamento, per percorsi privati, in un gioco di spazio/tempo che ci avvicina e ci allontana, infine, per farci inghiottire dalla platea o dal loggione, ritrovando anche qui luoghi sperimentati, consueti, che conservano quasi l’impronta del nostro corpo, memoria di precedenti incontri. Piacere dell’attesa, dell’aspettativa, filtrata da quello che si sa della pellicola, del regista, degli attori, da quell’immaginario che si è già formato in noi da questi frammenti di sapere e del potere evocativo delle locandine, dei manifesti, che, come ha dimostrato l’opera di Mimmo Rotella, non svanisce neppure quando si lacerano, macerano, strappano facendo affiorare precedenti figure, che vengono così coinvolte e mescolate in intrecci fantastici e atemporali. Il cinema indubbiamente sospende il normale fluire del tempo. È uno spiraglio che introduce in un altro mondo, annidandoci nel buio vellutato, rotto dal lampeggiare delle immagini che si aprono, si schiudono allo schermo, dilatandosi, ingrandendosi, vibrando e, infine, depositandosi come su di una enorme pagina sulla quale per magia acquistano colore, movimento e voce, in una mimesi del reale, che è però anche infinita possibilità di ripetizione, interruzione e ripresa, tempo del narrare e sussulti e sussurri del cuore, il nostro. Avvolti dall’oscurità, come da un mantello lieve d’aria bruna e oscura, abbracciati con dolcezza dalle poltrone, nelle quali il nostro corpo ritrova posizioni insieme non abituali, ma che gli sono intimamente proprie, gli occhi fissi davanti a noi, in un rito individuale, del tutto privato, ma che ci accomuna con i vicini, che si percepiscono, confortano ed insieme si escludono dal nostro spazio rigorosamente definito. Alla fine si esce con dentro ancora le immagini, le voci, le musiche, le emozioni ed i sentimenti che questa astrazione ha prodotto in noi, sospesi e recalcitranti a rientrare nel quotidiano, segnati da un rimescolamento nel quale la nostra identità si mescola all’esperienza di un incontro, di questo incontro. In qualche modo diversi. E fuori l’ora, la città, l’atmosfera è diversa da quando siamo entrati e ce ne stupiamo, come di una sospensione esistenziale, come usciti da un’esperienza che ha toccato il profondo. Forse oggi questo pulviscolo d’oro si è attenuato, ingrigito in una quotidianità di immagini in movimento che ci vorticano intorno e che ci accompagnano estranee in gesti e pensieri che non le coinvolgono. Ci limitiamo ad accarezzare velocemente con gli occhi. Per questo si è aggiunta la nostalgia, quella che ha coinvolto anche le più giovani generazioni, per il “gran cinema Paradiso”, che non c’è più e che ci sforziamo di ritrovare in riti sempre più ovattati, mentre il mito cresce con il confondersi e lo sbiadirsi dei ricordi. E ritornano più veri i film che già furono, una storia trasformata in mito, con il rosario dei nomi dei registi che hanno reso diversa la nostra giovinezza e la nostra vita, con una cronologia e predilezione del cuore che non rispecchia quanto è accaduto nel tempo del succedersi degli eventi, ma in quello nostro personale, intriso di sogni e rimembranze. Non stupisce quindi che Ferdinando Lauretani, uomo di cinema, abbia voluto dedicare una serie di sculture ai grandi registi italiani. Sculture in marmo, di Carrara, come si conviene ai monumenti, anche se in formato ridotto, anche se per una piazza del cuore, più che un pantheon, una galleria di grandi proporzioni. Va subito detto che Lauretani è scultore: le sue opere sono realmente forme che si muovono nello spazio con la vitalità della plastica d’autore. Spesso le opere di piccole dimensioni, anche piacevoli e aggraziate, anche sapienti e suggestive, non sorpassano gli esiti migliori dell’artigianato, dell’oreficeria, del piacevole soprammobile. La scultura, oltre le specifiche misure, è altro, ha un’anima che le vibra dentro, un’aura intorno che la espande nello spazio, una vitalità che coinvolge, provoca emozioni, che non si risolvono nel superficiale piacere delle superfici e loro brevi seduzioni. La scultura ti attrae, ma può respingerti insieme: insomma ti coinvolge, si impone nella sua autonoma alterità, per l’interiorità netta e forte che la rende unica. Dunque, si diceva, quelle di Lauretani sono sculture, monumenti ironici, anche per questo pieni di pudore, da parte di un uomo di cinema per i grandi maestri della decima musa che l’hanno coinvolto, l’hanno segnato. E l’incontro con loro deve essere stato davvero profondo se ancora riaffiora in lui, che pure ha vissuto e di cinema vive ancora. Inoltre Lauretani è stato forse soprattutto uomo della televisione, cioè di un altro linguaggio visivo apparentato al cinema, ma insieme diversi. Eppure per lui la magia è ancora nel film, nella sala di proiezione, nello scorrere della pellicola sul grande schermo, perfetta e conclusa nel montaggio, sottratta ad ogni evento, ogni ulteriore contaminazione perfetta e nitida come i marmi nei quali ha racchiuso tra allusioni e simboli non certo criptici, l’incontro con un uomo, un regista, e le sue opere, che sono così la sua storia, la sua biografia. Le sculture di Lauretani sono così eccezionali, sintetiche, colpiscono e affascinano, suggeriscono due piani di lettura. Quello immediato della riconoscibilità del grande artista rievocato e delle tracce del suo mondo, attraverso inserimenti polimaterici. Già così l’occhio attento deve vagare sull’opera, il corpo deve circumnavigarla, poiché la scultura, quindi anche questa, occupa uno spazio, la condiziona, lo contrassegna: operazione che mette in sintonia emotiva con il soggetto, la sua riconoscibilità non solo e non tanto fisiognomica, quanto di affascinazione, intrigo. Sono sculture nelle quali ci si deve far implicare, trascinare, in un certo senso compromettere. Bisogna leggere immediatamente la carica di affetto che ha mosso la mano dello scultore, il coinvolgimento personale, che talora può apparire gioco, allusione scherzosa, con però un eterno sapore di giovinezza, di immutabile leggerezza. L’occhio di chi guarda trascorrere da un particolare all’altro, ricostruisce non solo l’intera immagine, la pregnanza iconica e simbolica della scultura, ma il processo del pensiero, del fantasticare, dell’assemblare frammenti in una unità, che ha portato Lauretani a creare quell’opera, a riassumere una vita, una creatività in una concretezza pietrificata che la riassorbe e compendia. Ritrovare queste fila del fantasticare dello scultore è la pista che porta alla seconda e più approfondita lettura, a riconsiderare ogni particolare non con la mente dello storico, dell’enciclopedista, con la saccenteria del critico, ma facendosi coinvolgere nel processo fantastico che ha permesso allo scultore, ma anche a noi che guardiamo, di trovare essenza ed unità in un’apparente dispersione, in un affastellarsi di indizi: di scoprire che non si tratta di un gioco, non siamo coinvolti in un puzzle, ma in un’emozione che interagisce con i nostri ricordi ed il nostro sentire. Andava detto per evitare che queste opere vengano ridotte a racconto, ad aneddotica visiva; vengano esteriorizzate in una povera oggettività. Lauretani sa molto di cinema, sa molto delle opere e dei registi che ha ricordato, spesso li ha conosciuti, e non marginalmente, di persona, eppure tutto quanto egli poteva desumere da questo sapere, da questi ricordi, l’ha decantato, l’ha elaborato, quasi ruminato lentamente, fino a ridurlo ad un’immagine, ad un’opera che è altro, autonoma, anche se permane l’eco di questo processo di creazione di una singola forma eidetica, di un affioramento che ha la magia della semplicità, annullando le fatiche del processo elaborativo, della “reductio ad unum” di una complessità di ricordi e conoscenze. Alcuni particolari tradiscono le passioni di Lauretani, le sue compromissioni con i ritrattisti e la loro storia, ma l’insieme è sempre universale; è comune ad un sentire al quale tutti possiamo partecipare. Anche questo fa di queste sculture monumenti, pur in formato ridotto, proprio perché l’identificazione dei temi, allusioni e simboli sono immediatamente condivisibili. Forse parlare di simboli è fuorviante. Si tratta, piuttosto, di citazioni, di rimandi, con ripercussioni simboliche, che però si dilatano e si agganciano ai simboli presenti nell’opera di ciascun regista: immagini che diventano idee, pensieri, ricordi e rinvio per altre riflessioni, in un gioco di specchi interiori. Dietro e dentro di noi è come se sempre ci fosse la sala cinematografica, calda e uterina. Lauretani ha saputo mantenere questa magia.